Parola d’ordine autonomia: così la trasversalità politica tiene insieme il Sud con il Nord

Lega: Maroni e ZaiaLuca Zaia e Roberto Maroni presso la sede della Lega Nord di via Bellerio a Milano (foto Ansa.it)

Sono i giorni della secessione della Catalogna, con la Spagna che si scopre divisa sull’indipendenza di una regione che storicamente mai ha sopportato Madrid. Una secessione repressa, almeno amministrativamente, dal governo centrale che ha commissariato la regione e indetto nuove elezioni per il 21 dicembre prossimo.

In Italia non si parla di secessione ma sicuramente di “autonomia”. Il referendum che si è celebrato in Lombardia e Veneto ha infatti aperto una nuova pagina della storia politico-amministrativa del nostro Paese che potrebbe serbare sviluppi al momento imprevedibili. Da un paio di decenni almeno nel racconto quotidiano abbiniamo un partito, la Lega, e una regione, il Veneto, al secessionismo. Per anni Bossi e Calderoli hanno parlato di “Padania” e di “secessione” ma gli unici a portare migliaia di italiani alle urne per votare sull’autonomia sono stati Zaia e Maroni. Il tutto senza folklore e con un profilo assai lontano dai leghisti di una volta.

Anche perché si tratta solo di una questione di soldi. I governatori di Lombardia e Veneto, infatti, chiedono allo Stato centrale che ha sede a Roma di disporre per intero della raccolta fiscale che si realizza nelle loro regioni. Dicono che questo, più o meno, è scritto anche nella Costituzione. E in effetti quel che le regioni possono avere, in termini di autonomia e poteri, e come arrivarci, è scritto nella Costituzione, all’articolo 116. Volendola dire tutta, non era necessario il referendum, visto che i due presidenti avevano già il potere di attivare la procedura. Senza contare che, come ha scritto Roberta Carlini in una analisi pubblicata dal Messaggero Veneto, “l’esito finale della trattativa non potrà prevedere quello che molti dei votanti vogliono, ossia che le tasse pagate dai lombardi e dai veneti restino nei loro territori”. Insomma, se il voto di domenica 22 ottobre ha “sicuramente espresso un’istanza reale, rischia di non avere lo sbocco desiderato; i cittadini potevano anche non saperlo, i governatori avevano il dovere di saperlo”.

Questione di posizionamento politico, si dirà. Del resto siamo in piena campagna elettorale e sia Maroni che Zaia adesso sono più forti. Ad ammetterlo è lo stesso Matteo Salvini, erede (?) di Bossi alla guida della Lega: «Tra Zaia e Maroni c’è assoluta concordia su come trattare col governo centrale per portare a casa una buona politica, quindi non mi intrometto», ha spiegato pochi giorni fa il segretario del Carroccio, rispondendo sulle conseguenze dei referendum per l’autonomia.

A proposito: lo stesso Salvini non cambierà il nome del partito, anche perché ci vorrebbe un congresso per farlo, ma ha confermato che nel simbolo elettorale delle Politiche 2018 – da presentare in tutta Italia – dopo la parola Lega non ci sarà più la parola Nord. Sarà Lega e basta, senza altre aggiunte. La ventata di “nordismo” infatti non ha cambiato i piani di Salvini, che si prepara a una lunga campagna da aspirante premier che lo vedrà impegnato in un tour in Sicilia in vista delle Regionali. «Secondo voi, vado a Taranto con Lega Nord per parlare di federalismo?», ha liquidato la questione l’aspirante leader del centrodestra, noto anche per le sue felpe alla moda.

Autonomia quindi parola chiave in questo momento. Che è anche concetto assai trasversale, politicamente parlando. Qualche esempio: il vero feeling la Lombardia di Maroni non ce l’ha con il Veneto di Zaia, eppure i due sono della stessa parrocchia. Come ha evidenziato Gianni Spartà, in un commento pubblicato dal Tirreno, “sta crescendo un dialogo tra la Lega dell’ex braccio sinistro di Umberto Bossi (cioè Maroni) e il governatore Pd dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini. All’insegna, non dello strappo arrogante, ma della trattativa ragionevole”. E in effetti, l’Emilia Romagna, regione “rossa” per antonomasia”, da almeno due anni coltiva un progetto sull’autonomia da rendere il più condiviso possibile con la società civile e che porterà al confronto con il governo, dopo la dichiarazione di intenti firmata dal premier Gentiloni e dal governatore Bonaccini.

Se Maroni ha più interessi in comune con Bonaccini che con Zaia, da tempo sappiamo del feeling di Vincenzo De Luca, presidente della giunta regionale della Campania, con Flavio Tosi, sindaco leghista di Verona per 10 anni. «Ho proposto di fare un’iniziativa a Milano con Maroni per mettere a confronto le realtà del Sud e del Nord. Ammiro Milano e credo che possiamo intenderci, con rispetto reciproco, anche perché Maroni sa cosa stiamo facendo in Campania», ha comunicato per via televisiva l’ex sindaco di Salerno tendendo una mano al collega lombardo e tirando con l’altra un ceffone ai compagni di partito con base a Roma. «Ho scritto al presidente Gentiloni in merito al trasferimento di competenze tra Stato e Regioni e sulla riorganizzazione delle risorse nazionali. Comincino a restituire alla Campania i 250 milioni all’anno sottratti nel riparto del fondo nazionale sanità”, ha puntutamente teledetto De Luca.

Autonomia e trasversalità, al di là dei partiti e delle coalizioni. Basti pensare al sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, che con stile bolivariano ha ribaltato gli assetti di potere nella sua città dando voce ai centri sociali e ridimensionando la nobile (e ricca) borghesia napoletana che da sempre è andata a dama con la politica. Senza contare Michele Emiliano, il magistrato antimafia che prima da sindaco di Bari e adesso da governatore della Puglia, è l’unica vera voce del Sud all’interno del Pd, in contrapposizione con il cosiddetto Giglio magico di Renzi.

Tra pochi giorni, poi, si vota in Sicilia dove un sottosegretario del Pd, come Davide Faraone, parla di «abolire l’autonomia regionale» che invece è il cavallo di battaglia di tutti i candidati in lizza. Forse è per questo che il Partito democratico rischia grosso a questo giro sull’isola. Con possibili ripercussioni anche su Renzi e sul direttivo nazionale.

E’ una partita quella dell’autonomia delle Regioni che ha una storia. E se adesso la Lega di Salvini punta al Molise più che al Friuli una ragione ci sarà. E’ questione di soldi, pochi però. Perché pochi sono quelli usati per costruire qualcosa nel Mezzogiorno dal Dopoguerra in poi. Anche se il vero problema non è averli i soldi ma gestirli e metterli in mano agli amministratori giusti. E così siamo di nuovo alla casella di partenza del gioco dell’oca della politica.

Editoriale “Il Salernitano visto da fuori” andato in onda su Radio Alfa il 29 ottobre 2017

 

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