Nella settimana delle intercettazioni che potrebbero costare care agli uomini di De Luca, e soprattutto della scomparsa del grande Umberto Eco, uno dei pezzi più solidi della nostra cultura, c’è un altro dato che lascia il segno. È il numero 16 che quantifica i miliardi introitati in un anno dalle mafie che speculano sull’agroalimentare in Italia.
Tanti soldi, troppi tenuto conto che vanno a finire nelle casse di mafia e camorra attraverso ogni tipologia di illeciti, dalle truffe alle estorsioni, dal riciclaggio alle associazioni per delinquere. Il fenomeno, dilagante in tutto il Paese, viene raccontato puntualmente e senza sconti nel quarto Rapporto sui crimini agroalimentari di Eurispes-Coldiretti e Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare. Un rapporto che nel contempo evidenzia la presenza di un sistema di controlli per combattere le agromafie dal campo allo scaffale.
Sono state infatti oltre 100mila le verifiche effettuate nel 2015, mentre i sequestri sono pari a 436 milioni di euro, di cui il 24% nella ristorazione, il 18% nel settore della carne e salumi, l’11% in quello delle farine, del pane e della pasta. Insomma le mafie hanno le mani nei nostri piatti, sia a pranzo che a cena.
Una situazione che non risparmia nessuna regione italiana: se è elevata nel Mezzogiorno, è stabile e forte nel Centro dell’Italia ed in modo particolare in Abruzzo e Umbria, in alcune zone delle Marche, nel Grossetano e nel Lazio, per lo più a Latina e Frosinone.
In Calabria e Sicilia si denota un grado di controllo criminale del territorio pressoché totale, al pari della Campania, riflettendo la forza di ‘Ndrangheta, Mafia e Camorra, come sottolinea il rapporto. Il grado di controllo e penetrazione territoriale della Sacra Corona Unita in Puglia, invece, pur mantenendosi elevato, risulta inferiore che altrove, così come in Sardegna.
Qualche esempio pratico. Dal finto extravergine italiano alla mozzarella con cagliate straniere, dal pane al carbone vegetale alle conserve di pomodoro cinesi fino al pesce avariato. Ecco queste sono solo alcune delle frodi smascherate nel tempo.
Il risultato è che gli inganni del finto Made in Italy sugli scaffali riguardano due prosciutti su tre venduti come italiani, ma provenienti da maiali allevati all’estero, ma anche tre cartoni di latte a lunga conservazione su quattro che sono stranieri senza indicazione in etichetta come pure la metà delle mozzarelle.
E a rendere ancora più amaro il desco degli italiani sono i 26.200 terreni nelle mani di soggetti condannati in via definitiva per reati che riguardano tra l’altro l’associazione a delinquere di stampo mafioso e la contraffazione anche perché il processo di sequestro, confisca e destinazione dei beni di provenienza mafiosa si presenta lungo e confuso, spesso non efficace e sono numerosi i casi in cui i controlli hanno rilevato che alcuni beni, anche confiscati definitivamente, sono di fatto ancora nella disponibilità dei soggetti mafiosi.
A proposito, si stima che circa un immobile su cinque confiscato alla criminalità organizzata sia proprio nell’agroalimentare. Il 53,5% si concentra in Sicilia, mentre la restante parte riguarda soprattutto le altre regioni a forte connotazione mafiosa, quali la Calabria (17,6%), la Puglia (9,5%) e la Campania (8%). I criminali che non vengono sgomberati dagli immobili godono persino del vantaggio di non dover pagare le tasse sul bene, poiché sequestrato. Senza dimenticare che i beni di fatto non riutilizzati, anche quando non sono più direttamente a disposizione dei soggetti mafiosi, comunicano all’esterno il permanere del loro controllo sul territorio. Un segnale in codice ben noto alle comunità dei nostri territori.
Non ci siamo, anche perché al Sud agroalimentare significa tanto. Tutto, pensando al fatto che ormai l’industria non esiste più. Dalla terra, così come dal mare, è sempre arrivata l’unica ricchezza per la nostra gente. Per secoli il nostro Pil si è fondato sul raccolto e la pesca. E ancora oggi rappresenta l’unico snodo economico che ci impedisce, anche se solo di un soffio, di precipitare nel baratro pur restando a ballonzolare pericolosamente sul ciglio del burrone.
Non serve una mano, servono progetti seri, politiche che partano direttamente dal governo ed incentivi che consentano di dire “no” alle mafie da parte di quanti non sono disonesti ma sono troppo deboli di fronte al malaffare. Zappare la terra e raccoglierne i frutti, gettare le reti e tirare su il pescato, andare al mercato e arricchire la tavola con i nostri prodotti non è un percorso impossibile ma un’esigenza. Imprescindibile per il Sud.
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Editoriale “Il Salernitano visto da fuori” andato in onda su Radio Alfa il 21 febbraio 2016
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