Crisi e camorra: la doppia battaglia del Sud

di Angelo Di Marino
A Pagani un ex sindaco e consigliere regionale è tornato in carcere insieme ai suoi più stretti collaboratori. All’uscita dalla tenenza, familiari e amici se la sono presa con giornalisti e inquirenti. C’è stato chi si è lanciato sulle auto che portavano in carcere gli indagati. Il giorno dopo, a Castellammare il sindaco si è sfilato la fascia tricolore perché la statua del patrono ha omaggiato, durante la processione, il boss ai domiciliari che dal suo balcone ha poi inveito contro chi seguiva il primo cittadino. Tornando nel suo ufficio al municipio è stato bersagliato da insulti di non meglio identificati passanti.

Scene forti che gettano però nello sconforto. Perché non può essere il caso singolo, più o meno eclatante, a spaventarci. Se Gambino con la sua folta schiera di collaboratori ha davvero agito all’unisono con la camorra, favorendone gli interessi, sarà la magistratura a stabilirlo. Così come non deve far paura il boss che punta il dito verso la statua di San Catello nel bel mezzo della festa patronale.

E’ la reazione di tanta gente paganese e di un pezzo di Castellammare che invece preoccupa e deve davvero far riflettere. Il malaffare al Sud ha sempre affondato le sue radici nel disagio sociale, nella miseria, negli stenti. Offrendo facili guadagni a chi manco sapeva come fossero fatti i soldi. E ha origini lontane anche l’abbraccio mortale tra camorra e affari, con la politica deviata a fare da testimone silente e compiaciuta di ogni sorta di saccheggio.

Ecco, il Sud che ha paura e che diventa complice pur essendo vittima non può avere un futuro diverso dal suo presente. Che sarebbe la condanna più grave e senza appello per la nostra terra, già depredata a più riprese da chi, senza molti scrupoli, ne ha fatto cassaforte da svuotare di energie prima ancora che di tesori e finanze. Non è il caso di tirare fuori secoli di storia e improvvisare riletture che potrebbero prestarsi a troppe interpretazioni, ma basandosi sui dati di fatto non si può che comprendere quanto difficili siano le condizioni in cui si trova il nostro Mezzogiorno. E quanto simili siano a quelle che hanno accompagnato altre fasi storiche del Paese, risultate decisive per la crescita del disagio sociale ed economico del meridione.

La frattura con il resto d’Italia non può che acuirsi in presenza di un’assuefazione, forzosa o volontaria che sia, al malaffare, all’illegalità diffusa, alla contiguità. La malavita che ci troviamo a fronteggiare si è ulteriormente trasformata (in peggio) negli ultimi anni: non avendo più affari milionari da gestire, avvinghia dal basso le sue vittime. Colpisce la base, chi non arriva a fine mese, i giovani che non hanno un lavoro, le piccole aziende alle prese con la crisi. Fornendo soldi a strozzo, droga, moltiplicando il pizzo, spolpando l’osso che ormai non ha più grasso. Metodi vili e meschini ma strategicamente calati alla perfezione nel tessuto sociale meridionale alle prese con un’emergenza patologica e mai curata.

E chi gode dei frutti del malaffare vede aumentare vertiginosamente le proprie possibilità di successo in presenza di indifferenza e prossimità nei confronti della pratica illegale. Per questo è necessario, e non più rinviabile, adottare comportamenti che lascino poco spazio a chi lucra sulle spalle degli altri. Bene fa il governo a mettere all’indice chi evade il Fisco, meglio farebbe se permettesse ai meridionali onesti, che sono ovviamente la stragrande maggioranza, di combattere la propria battaglia con dignità e avendo a disposizione strumenti reali, concreti, palpabili e non parole o promesse.

Ma non attendiamoci nulla dalla politica, dalla casta e dai “professori”: tocca a noi. Ancora una volta artefici del nostro destino, così come in fondo è sempre stato. Perché se tutto l’Occidente ha un nemico solo, che è la crisi, noi ne abbiamo almeno un altro da sconfiggere, cioè l’illegalità. Non possiamo permetterci di perdere. Stavolta sarebbero sconfitte senza appello.

pubblicato su “la Città” del 22 gennaio 2012

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