Macerie sotto l’albero

Non c’è nulla di buono sotto l’albero per molti salernitani. L’ultima parte di questo 2009, l’anno della crisi mondiale, si sta rivelando amaro per tanti lavoratori alle prese con stipendi non corrisposti, fallimenti delle aziende, riconversioni ancora non riuscite. E così l’incubo si trasforma in dura realtà, proprio come in molte altre aree del nostro Paese. La Campania si trova a passare in un imbuto: da un lato entrano tutti in caduta libera, dall’altro c’è il rischio di uscirne schiacciati e precipitare nel vuoto. La sensazione è che il periodo nero dell’economia non sta facendo altro che accentuare quelli che sono dei deficit patologici del tessuto economico sudista. Cerchiamo di capirne qualcosa facendo un passo indietro nel tempo. Il boom economico, quello che attraversò l’Italia negli anni Sessanta, cambiando completamente volti e abitudini della nostra gente, ha vissuto un’onda più lunga nella parte meridionale del Paese. A scoppio ritardato rispetto all’altra metà dello Stivale, assistemmo all’apertura di insediamenti industriali fino agli anni Ottanta. Complice la politica, le periferie di Avellino, Benevento ma anche di Catanzaro, Potenza per non dire di Caserta e della stessa Salerno si rimodularono, diventando “zone industriali”. Attività di ogni genere ricevettero anche grossi finanziamenti pubblici per diventare in qualche modo impresa, pur non avendone le caratteristiche. Ad aumentare la confusione, ci si mise pure il terremoto con una ricostruzione che, atti della commissione parlamentare d’inchiesta alla mano, diffuse soldi a pioggia e con criteri discutibili. Poi il declino, anzi il tracollo. Inevitabile, viste le premesse. In Campania, e in buona parte del Sud, da quarant’anni a questa parte hanno trovato spazio siti industriali di ogni tipo, la gran parte dei quali nulla ha a che vedere con la storia, le attitudini e le peculiarità della nostra terra. Per di più, ad un certo punto del cammino, non aveva neanche più importanza se questa o quell’impresa avesse o meno un riscontro dal mercato. Tanto a farla andare avanti ci pensavano politiche di assistenzialismo spinto che finivano per essere le uniche committenti per centinaia di aziende.

Ed eccoci ai giorni nostri. Un’epoca questa che ha fatto dell’archeologia industriale una corrente culturale, visti i fin troppi siti passati presto a miglior vita e divenuti monumenti ancor prima di acquisire lo status di fabbriche. Nel corso degli anni recenti, l’assistenzialismo a cui eravamo abituati si è trasformato in disoccupazione, in espulsione forzata dal mondo del lavoro senza la possibilità di aggrapparsi a nulla. Chi invece aveva usufruito di bonus e agevolazioni ha girato i tacchi, tornando da dove era venuto, lasciando sul suo cammino macerie e pessimi ricordi. Senza più soldi pubblici, con il fiato corto a causa di un mercato sempre più sbilanciato verso il low cost ed i paesi asiatici e con le piante organiche sovradimensionate rispetto alle reali aspettative produttive, i nostri insediamenti industriali si sono trovati a sbattere il muso contro un muro. La totale assenza di una regia, sinergicamente capace di far incontrare la politica e l’imprenditoria, ha fatto il resto. O meglio non ha fatto il resto.

Arrivati all’alba del nuovo anno, sembra di essere costretti a fare la conta dei superstiti, non certo dei successi e delle prospettive. A leggere la crisi e dettare la svolta, regola impone, deve essere la politica, chi ci amministra, chi dovrebbe guidarci. Invece anche lì siamo alle solite. Nel corso di un interessante dibattito televisivo, andato in onda su Canale 21 pochi giorni fa, il presidente degli industriali campani Lettieri, sollecitato da Samuele Ciambriello, ha chiaramente detto che “in questo governo c’è la Lega che ostacola ogni mossa strategica per il Sud”. Aveva davanti il sottosegretario Viespoli che di certo non lo ha smentito, anzi. Se è vero che il Mezzogiorno può rappresentare una palla al piede per il nostro settentrione, è altresì vero che nordisti e sudisti hanno più meno gli stessi nemici: concorrenza spinta dall’oriente, alto costo del lavoro, tassi troppo alti praticati dalle banche. Solo esempi, c’è anche dell’altro per carità. E allora? Ostacolarci significa solo impedire ai nostri prodotti di guadagnare quote di mercato, null’altro. Che il dialogo e la logica istituzionale servano a qualcosa è sicuro. Un esempio lampante viene proprio da Salerno, dove dopo anni di schermaglie e veti incrociati si è arrivati a regolare la gestione dell’aeroporto-fantasma. Da un lato De Luca, dall’altro Cirielli, in mezzo tutti gli altri. Con un pizzico di buonsenso da parte di entrambi (sindaco e presidente) si è arrivati a chiudere la partita. Esempio assai raro di dialogo istituzionale. Speriamo sia il primo di una lunga serie, su scala provinciale, regionale e nazionale. Anche perché di tempo ne abbiamo perso davvero tanto. Troppo.

Editoriale pubblicato su “la Citta'” del 20 dicembre 2009

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