Ma perché i partiti festeggiano?

di Angelo Di Marino
Con la fine dell’estate i partiti celebrano le loro feste. I leghisti prendono il fresco sul Monviso, inneggiando alla Padania e alla secessione davanti al proprio popolo mentre, appena girate le spalle al Po, intascano i lauti compensi che lo Stato garantisce loro quali ministri e parlamentari. I democratici sono nuovamente sfilacciati, dopo la passerella di Pesaro, dove passato e futuro si sono alternati nel meno riuscito degli amarcord delle feste dell’Unità. E il Pdl regionale, dilaniato da inchieste e contrapposizioni, coraggiosamente ha affrontato la folla (?) nella villa comunale di Scafati, titolando l’happening “Dagli impegni ai fatti”. Tra dibattiti spesso senza costrutto e bancarelle con porchetta, viene da chiedersi: ma cosa avranno tutti da festeggiare?
L’Italia è sulle ginocchia, non si vede uno spiraglio di luce nel lungo tunnel della crisi che (per noi) sembra non finire mai, in giro per il mondo ci prendono come fenomeni da baraccone e loro che fanno? Festeggiano, celebrano senza pudore il punto più basso mai raggiunto dalla nostra politica dal dopoguerra ad oggi. E si sorprendono quando in platea qualcuno mugugna o addirittura protesta, come è capitato per due sere di seguito a Scafati dove gli abusivi e i senza lavoro hanno alzato la voce.
Gli unici a non mostrare stupore sono stati i sindaci, da Aliberti a Galdi, che ormai rappresentano, anche nel centrodestra, un’altra cosa rispetto alla politica astratta che tiene in scacco il Paese. I primi cittadini sono, a prescindere dal colore della casacca, dalla parte del loro territorio che, mai come in questo periodo, cercano di difendere con le unghie e con i denti, sbattendo il muso contro l’immobilismo di chi è sopra di loro.
Peccato che i sindaci fermi non possano restare, obbligati come sono a fornire risposte ai loro concittadini, impossibilitati a far quadrare i conti del bilancio familiare già alla seconda settimana del mese.
Sono capitati però nel momento sbagliato. All’inizio degli anni Novanta, i loro predecessori riuscirono a far carriera cavalcando l’onda del “partito dei sindaci”, formula mai gradita dai camerlenghi delle segreterie politiche ma capace, all’epoca, di fornire una valida alternativa all’implosione del sistema conseguente a Tangentopoli. Questo giro, invece, sarà solo lacrime e sangue e difficilmente garantirà un futuro da protagonisti lontano dai confini municipali.
In sostanza, siamo alla resa dei conti. La casta è ricurva su se stessa, asserragliata a difesa delle prebende, dei privilegi, delle notti romane. Nel centrodestra, alle nefandezze del premier si aggiunge il clima da tutti-contro-tutti (e tutti contro Caldoro, in particolare) che potrebbe rappresentare l’antipasto meno succulento di un digiuno elettorale che in molti temono nel Pdl marchiato Berlusconi.
Per non parlare del rapporto con l’Udc che in Campania continua a far venire il mal di testa ai colonnelli del Cavaliere. Senza tralasciare l’evanescenza di un Pd incapace di seguire la scia e di proporre qualcosa e qualcuno che rappresenti un’alternativa. Lamentandosi, al contempo, dello straripare di Di Pietro e de Magistris i quali altro non fanno, l’uno a Roma e l’altro a Napoli, che raccogliere a piene mani quel consenso trasversale alimentato proprio dalla nullafacenza degli altri.
Peccato sia il momento delle scelte, prossimi come siamo al punto di non ritorno. Bisogna agire, altrimenti la battaglia da politica diventerà civile. E allora sarà troppo tardi. Per tutti.
© riproduzione riservata

pubblicato su “la Città” del 18 settembre 2011

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